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Nonviolenza

Per due secoli il mondo occidentale ha vissuto la speranza o il timore di rivoluzioni distruggitrici dell'ordine sociale cumulato per secoli; il loro scoppio violento avrebbe aperto l'avvenire a tutte le possibilità, dalle più fosche alle più rosee. Ma nel 1989 le molte rivoluzioni nonviolente dei Paesi dell'Est hanno fatto crollare i miti dei progetti di rivoluzioni violente, fino a cambiare il concetto stesso di rivoluzione: venti anni fa sono avvenute rivoluzioni popolari che, senza compiere violenza sugli uomini al potere, hanno distrutto sistemi sociali potentissimi, perché fino a qualche mese prima sembrava impossibile anche solo smuoverli. Oggi la ribellione armata, pur avendo avuto grandi vittorie nel passato, di fatto è confinata a ruoli politici laterali e poco popolari. Questa lezione dell'annus mirabilis della storia umana è stata recentemente confermata da precisi studi statistici sulle 323 rivoluzioni avvenute in qualsiasi Paese del mondo nel secolo scorso: delle nonviolente rivoluzioni una su due è stata vittoriosa, mentre quelle violente solo una su quattro. Dobbiamo allora prendere atto che nel secolo XX, mentre alcuni Stati hanno scatenato due guerre mondiali con stragi di più di un centinaio di milioni di morti, i popoli, fortunatamente per l'umanità, hanno dimostrato la loro capacità di abbattere in maniera nonviolenta i regimi dittatoriali (people power). Queste novità hanno sconvolto anche la teoria politica tradizionale, i cui studi passati qui in rassegna non sanno dare conto neanche della prima novità, la rivoluzione nonviolenta indiana secondo la strategia di Gandhi. Per superare questa difficoltà, si ricorre alle teorie dei maggiori teorici nonviolenti (Sharp, Galtung), per finire proponendo uno schema capace di interpretare le rivoluzioni nonviolente; se ne verifica la efficacia interpretativa applicandolo appunto alla lotta per l'indipendenza indiana guidata da Gandhi.